La fantascienza come la storia può esserci di aiuto nell'orientare il presente

La fantascienza come la storia può esserci di aiuto nell'orientare il presente

Intervista a Marco Malvestio, 24 marzo 2022.
Guerra, siccità, inondazioni e virus sono solo alcune delle parole che hanno circondato la nostra realtà di questi ultimi anni. Se inizialmente apparivano come delle keyword posizionate bel oltre il reale, oggi sappiamo che dietro di esse si cela qualcosa di più vero della verità, qualcosa per l'appunto di reale. A chi negli ultimi anni non è capitato di sentirsi stupido di fronte prospettive surreali immaginate fino ad allora solo come fantasiose e distopiche? Chi non ha provato almeno una volta nella propria vita social l'idea di un controllo "superiore" simile a quello descritto da George Orwell in 1984? Chi leggendo i titoli dei giornali su siccità, uragani e inondazioni non ha pensato agli scenari apocalittici di Deep Impact o The Day after Tomorrow?
Molte delle cose che abbiamo vissuto in questo spaccato di secolo appaiono come pre-esposte da una certa letteratura, soprattutto quella fantascientifica che si è dimostrata ampiamente capace, nonostante la sua declinazione distopica, di immaginare un futuro possibile e mediante questo dare delle bussole al presente.
Bussole che abbiamo ricercato sempre nella storia come disciplina capace di comprendere il presente e progettare il futuro mediante la memoria del passato
Nel caso della fantascienza invece le categorie chiave sono presente e futuro e lo strumento imprescindibile non riguarda la lotta contro l'oblio, ma la fondamentale visione che dà l'immaginario. Un immaginario che in quanto tale non esclude possibili ricadute di azione sul presente, tempo nel quale ancora tutto è orientabile,  ancora tutto è evitabile.

Presente e futuro, due coordinate chiave per comprendere lo spirito del tempo di questa epoca, identificata e narrata come l'epoca dell'Antropocene nella quale è ormai divenuto palese il peso che l’uomo ha prodotto sul pianeta a partire da scoperte distruttive come l’energia nucleare.

il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale e il regno animale sono i cinque elementi attorno ai quali ruota più spesso l’interpretazione dell’Antropocene come fase catastrofica. A raccontarli c'è un saggio che non pretende di salvare il mondo, ma cerca altresì di indagare con la letteratura i possibili scenari futuri sperando che siano motore di un vero cambiamento del presente. Il libro in questione è Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (Edizioni nottetempo) di Marco Malvestio, ricercatore che lavora all’università di Padova, dove, in collaborazione con la University of North Carolina at Chapel Hill, gestisce un progetto di ricerca su fantascienza italiana ed ecologia. Nell'intervista che segue ci racconta il link tra realtà e fantascienza proponendo una ridefinizione dell’Antropocene alla luce di quei 5 elementi a cui abbiamo fatto riferimento sopra. L'autore sarà presente alla Biennale della Democrazia di Torino dove parlerà assieme a Livio Santoro e Vittorio Martone dell’ecologia e politica dell’immaginario dell’antropocene in un dialogo sul rapporto tra letteratura e realtà, speranza e futuro.

 

Marco cosa c’entra la fantascienza con la realtà?

La fantascienza, come ogni forma letteraria, nasce in determinati contesti culturali e sociali, ed è a partire da quelli che costruisce i suoi immaginari. Anche se è un genere dell’irrealtà, o meglio della realtà possibile, la fantascienza è saldamente radicata nelle circostanze che circondano la sua produzione, e nasce dalle speranze e dalle ansie specifiche di un determinato momento storico.

Asimov diceva che una buona storia di fantascienza non deve essere in grado solo di prevedere l’automobile, ma anche il traffico. 

La fantascienza può servirci dunque ad anticipare in qualche modo la realtà? Quanto di ciò che è stato descritto e raccontato come fantascientifico è divenuto reale? Nel tuo libro proponi degli esempi interessanti. 

Non penso che la fantascienza anticipi la realtà, penso che elabori delle ansie e dei rischi specifici di determinati momenti storici. Per esempio, la fantascienza ambientale degli anni Sessanta è spesso ossessionata dal problema della sovrappopolazione e della finitezza delle risorse, perché elaborata all’ombra del report del Club di Roma e di bestseller catastrofisti come The Population Bomb.

The Population Bomb di Paul Ehrlich fu pubblicato nel maggio del 1968, in un momento di tremendi conflitti e sconvolgimenti sociali. Il libro scritto sosteneva che il pianeta Terra era alle soglie di una crisi drammatica dovuta ad una crescita esplosiva della popolazione che avrebbe condotto presto tutti gli esseri umani ad una "fame di massa" su "un pianeta morente".

Quel tipo di ansie non si è poi rivelato reale, i computi malthusiani che vi stavano alla base sono stati sostituiti da altri problemi ambientali, come quelli legati al clima, mentre la riflessione sulla scarsità delle risorse è stata sostituita da quella intorno alla loro distribuzione. Penso sia sbagliato dire che la fantascienza anticipa la realtà, sicuramente però interroga la realtà in maniere oblique che riescono a individuare problemi e soluzioni di cui spesso la narrativa tradizionale non si cura.

 

Nel tuo libro ogni capitolo è identificato con un’era. L’era dell’atomo, l’era del virus, l’era del cambiamento climatico, l’era delle piante e l’era delle estinzioni. Cinque capitoli, ciascuno dedicato alle rappresentazioni letterarie e cinematografiche di un particolare aspetto catastrofico della nostra era. Come possiamo sintetizzarle e qual è la peggiore?

Le ere in cui ho diviso il libro non sono in successione cronologica, ma sono proposte per ridefinire l’Antropocene. Se quest’ultima parola indica l’era in cui la specie umana è diventata il principale vettore di cambiamento ambientale sul pianeta, è interessante vedere in che modi questo cambiamento ambientale si è manifestato. Ho dunque scritto del nucleare, i cui effetti rimarranno rilevabili geologicamente per milioni di anni; delle pandemie, dal momento che i processi di zoonosi che le causano sono sempre più frequenti grazie all’incessante distruzione di habitat naturali; del cambiamento climatico, naturalmente; e dei modi in cui i cambiamenti ambientali causati dalla specie umana impattano altre forme di vita, come piante e animali. Non si può dire quale sia la peggiore, o meglio, dipende dalla prospettiva in cui ci si pone: sicuramente il cambiamento climatico e il nucleare sono i fenomeni con l’impatto più distruttivo per la nostra specie, ma l’allevamento intensivo, per esempio, ha effetti gravissimi e spaventosi sulla vita individuale di miliardi di animali. 

Verso la fine del tuo lavoro suggerisci una via d’uscita dall’immaginario catastrofico invitando il lettore a scoprire l’Afrofuturismo. Di cosa si tratta?

Nella conclusione del libro suggerisco delle letture alternative al catastrofismo di tanta fantascienza contemporanea, e propongo al lettore di esplorare le galassie del Solarpunk (un tipo di fantascienza incentrata su tecnologie rinnovabili e ibridazioni col non-umano) e l’Afrofuturismo.

Il solarpunk è un movimento culturale e artistico che promuove una visione ottimista e progressista del futuro in opposizione al cyberpunk e alla cli-fi, poiché ne rovescia i principi di base, in particolare la visione nichilistica e post apocalittica del futuro. Il solarpunk copre numerosi ambiti quale l’arte, la narrativa fantastica e di fantascienza, l’architettura e l'attivismo e si pone come obiettivo la realizzazione concreta di un futuro tecnologico ed ecosostenibile e la lotta al cambiamento climatico e al capitalismo.

Afrofuturismo, che include sia autori africani che afroamericani e una varietà di forme artistiche che va dalla musica al design, dal cinema alla letteratura, offre idee alternative di futuro rispetto a quelle che siamo tradizionalmente abituati ad associare alla fantascienza. Nell’immaginario Afrofuturista, soprattutto, il continente africano non appare semplicemente come il laboratorio di qualche catastrofe climatica, ma semmai come un luogo in cui si sviluppano innovativi rapporti con la tecnologia che i pregiudizi coloniali tenderebbero a non associare all’Africa. 

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